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La posizione della S.i.p.a.p. in relazione alla proposta di legge sull’accesso alla psicoterapia. di Giovanni Greco. Prima dell’interruzione dovuta alla fine della legislatura la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, stava lavorando all’approvazione di un testo di legge che, se fosse stato approvato dal Parlamento, avrebbe impedito l’attività di diagnosi agli psicologi, nonostante quest’ultima sia prevista essere un’attività propria di questa figura professionale, secondo quanto espressamente sancito dalla legge 56/89. Secondo il testo di legge in questione, la diagnosi dovrebbe essere svolta soltanto da un medico specializzato in psicologia clinica o in psicoterapia. Un tale provvedimento, oltre all’immediata conseguenza dell’esclusione degli psicologi da questa attività, avrebbe determinato una netta scissione fra chi stilerebbe diagnosi e relativo piano di intervento (il medico) e chi condurrebbe il trattamento psicoterapico (lo psicoterapeuta). Corollario di tale scenario sarebbe stato la riduzione dello psicoterapeuta a mero strumento esecutivo del trattamento così come pianificato dallo psichiatra, unico operatore ad avere potere decisionale in relazione al paziente. Si può facilmente comprendere il paradosso secondo il quale chi svolge pochi colloqui psicodiagnostici ha maggiore autonomia decisionale di chi invece svolge un articolato e duraturo processo terapeutico, all’interno del quale ha modo di approfondire la conoscenza del paziente, di verificare la bontà del progetto psicoterapico e di apporre eventuali modifiche allorchè si rendano necessarie. Per quanto riguarda le motivazioni addotte dai sostenitori della tesi che solo i medici possono svolgere psicodiagnosi, tra le più importanti può essere annoverata quella che fa riferimento all’incapacità degli psicologi di individuare eventuali cause organiche delle manifestazioni psicopatologiche del paziente o di addurre cause psicologiche a patologie mediche. Al fine di derimere questa polemica con cognizione di causa, è necessario entrare nel merito della definizione e classificazione dei differenti tipi di diagnosi psicologica. Essa può essere definita come “la valutazione di comportamenti e di processi mentali e affettivi anormali, che risultano disadattivi e/o fonte di sofferenza (e cioè di manifestazioni psicopatologiche e di sintomi), attraverso la loro classificazione in un sistema diagnostico riconosciuto e l’individuazione dei meccanismi e dei fattori psicologici che li hanno originati e che li mantengono”. Le classiche tipologie di diagnosi sono: diagnosi descrittiva, diagnosi di sede e diagnosi di natura o eziologia. Lo psicologo effettua l’inquadramento dei sintomi rilevati all’interno di una classificazione prevista in un sistema diagnostico organizzato e riconosciuto a livello internazionale. La diagnosi descrittiva viene effettuata con strumenti quali il colloquio anamnestico e clinico, l’osservazione del comportamento (anche nell’ambiente di vita del soggetto), le interviste strutturate, i test psicologici, le valutazioni psicofisiologiche. La diagnosi di sede consiste, invece, nella rilevazione della sede della lesione - anatomica o funzionale - che è associata al sintomo o ai sintomi rilevati dalla diagnosi descrittiva. Anche qui esistono diverse metodologie che sono utilizzate in relazione al tipo di lesione o disfunzione cerebrale presunta. Vi è oggi la possibilità di studiare il correlato neurale del processo psichico dal punto di vista funzionale. Ciò avviene, per esempio, attraverso la risonanza magnetica funzionale in cui la neuroradiologia e la psicologia indicano i rapporti mente e cervello attraverso la somministrazione al soggetto di compiti cognitivi. La diagnosi di sede, è spesso operata da neuropsicologi, soli o con la collaborazione di medici esperti nel settore. Infine, la diagnosi eziologica riguarda l’individuazione dei meccanismi e dei fattori psicologici che li hanno originati e che li mantengono. Ad esempio, una fobia sociale può essere determinata principalmente da mancanza di abilità e di assertività oppure da ansia eccessiva e paura della critica. In questo senso, lo psicologo opera sempre anche una diagnosi eziologica della psicopatologia. Non fa, ovviamente, riferimento ad agenti infettivi, ad alterazioni metaboliche o ad altre cause di competenza medica, ma ai processi psicologici che possono dar luogo ad anormalità cognitive e comportamentali e ai numerosi modelli psicopatologici che la scienza psicologica ha prodotto. Alla luce di quanto esposto fin qui, possiamo dire che la diagnosi descrittiva dei comportamenti psicopatologici può essere tranquillamente svolta dallo psicologo il quale nel suo percorso di studi viene formato a rappresentare la patologia del paziente secondo i criteri e le modalità di classificazione del DSM-IV o del ICD-10, manuali di classificazione diagnostica comunemente usati sia dai medici che dagli psicologi. È bene sottolineare che la diagnosi descrittiva va completata dal lavoro del medico che deve indicare la Condizione Medica Generale e l’eventuale affezione da sostanze tossiche (stupefacenti, agenti tossici, ecc.) Inoltre, va tenuto presente che tra gli strumenti che lo psicologo usa, alcuni sono deputati proprio a far presumere l’eventualità di possibili cause organiche del disturbo lamentato. In questo modo lo psicologo può rilevarle e raccomandare al proprio paziente di effettuare gli esami medici necessari per verificare tale ipotesi. In una tale eventualità, non va trascurato, inoltre, il vantaggio che il paziente usufruisca del sostegno offerto dallo psicologo di fronte all’ansia indotta da esami invasivi. Relativamente al rischio che lo psicologo possa sconfinare nell’area di competenza dei medici è bene ricordare che il Codice Deontologico approvato il 17 gennaio 1998, che recita - all'art. 5, 1° comma - che lo psicologo può e deve usare "solo strumenti teorico pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza...". Alla luce di ciò è possibile affermare che è sufficiente che lo psicologo si attenga scrupolosamente ai dettami del codice deontologico, per essere al sicuro da indebiti utilizzi di procedure diagnostiche per le quali non ha ricevuto adeguata formazione, tra cui ovviamente quelle mediche. Per fare degli esempi: è di competenza del neuropsicologo appurare l’esistenza di un ritardo mentale utilizzando batterie di test cognitivi (diagnosi descrittiva), mentre è competenza del neuropsichiatra stabilire se è possibile individuare una causa neurologica del deficit attraverso tecniche di visualizzazione del Sistema Nervoso Centrale quali la Tomografia Assiale Computerizzata, la Tomografia ad Emissione di Positroni o la Risonanza Magnetica oppure attraverso altre analisi biologiche quali gli esami tossicologici (diagnosi di sede). Discorso leggermente più complesso merita la diagnosi eziologica in quanto si propone l’obiettivo di individuare le cause del disturbo. Data la natura multifattoriale e ricorsiva dei fattori determinanti gli stati di alterazione mentale (ampiamente dimostrata da una moltitudine di studi appartenenti ad un ampio ventaglio di discipline scientifiche), tale diagnosi necessità inevitabile della collaborazione di un’equipe di esperti, ognuno proveniente da un percorso formativo proprio delle diverse discipline scientifiche, i quali, componendo un’ottica integrata, possono restituire un modello olistico della complessità del paziente. In caso contrario, il rischio è che, affidando la diagnosi esclusivamente ai medici, si finisca per ridurla ai soli aspetti medici e a proporre prevalentemente forme di trattamento farmacologiche. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un ritorno di modelli teorici organicistici della psicopatologia. Come corollario di ciò si assiste ad un moltiplicarsi di prescrizioni di trattamenti farmacologici per la cura di disagi di natura psicologico-sociale: si pensi, ad esempio, all’uso indiscriminato di farmaci quali il Ritalin per il trattamento del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, sempre più spesso diagnosticato in bambini che, per vari motivi, hanno problemi di integrazione nel contesto scolastico. Gli emendamenti in questione si possono interpretare come un ulteriore passo verso l’affermazione di una tendenza epistemologica che si orienta su fattori biologici e individualistici. Inoltre, inquadrare la diagnosi in un’ottica strettamente medica rende estremamente più complicato ragionare su piani di trattamento mirati alla salutogenesi e alla promozione del benessere, obiettivi propri della psicoterapia come espressamente sancito dal primo articolo di questa stessa proposta di legge. Tale difficoltà è legata al fatto che i medici, per forma mentis, sono maggiormente portati a concepire la salute come assenza di malattia piuttosto che come presenza di benessere. In definitiva, se tale riforma nasceva con l’intento dichiarato di agevolare l’accesso da parte degli utenti ai servizi pubblici di psicoterapia ad un costo inferiore dei servizi privati, con un evidente ricaduta positiva per i soggetti sociali meno abbienti, rischiava di diventare un ulteriore modo per aumentare il potere della classe medica a discapito sia delle altre figure professionali, sia degli utenti, i quali, per le ragioni esposte sopra, si trovano ad usufruire di un servizio impoverito. Anche se attualmente i lavori della Commissione sono fermi a causa dello scioglimento delle Camere, siamo convinti che presto nuovi tentativi di circoscrivere la professionalità degli psicologi verranno intrapresi. La S.I.P.A.P. mantiene la sua posizione contraria verso questa proposta di legge e verso qualsiasi altra futura iniziativa che sostenga la medicalizzazione dei processi di psicodiagnosi e di trattamento psicoterapico. La battaglia che sta conducendo da anni è a tutela della professione psicologica e degli utenti, nella misura in cui cerca di garantire a questi ultimi la possibilità di un servizio di cura che tenga in considerazione della natura contemporaneamente biologica, psicologica e sociale dell’essere umano. L’auspicio per il futuro è quello di costruire servizi socio-sanitari all’interno dei quali le differenti figure professionali possano collaborare nel rispetto delle reciproche competenze, al fine di mettere in primo piano le necessità dell’utenza piuttosto che gli interessi politici o gli orientamenti scientifico-filosofici di una o dell’altra categoria professionale. Pertanto l’unica vera soluzione è rappresentata dalla conoscenza e dal rispetto da parte reciproco dalla disponibilità alla collaborazione e al lavoro di rete. |
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