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Uno-Nessuno-Centomila: tanti psicologi allo sbando
di Domenico Mastroscusa

 

Sessantacinquemila iscritti, un grande esercito.

Tassi di crescita di circa il 10% annuo, un vero record.

Tutti ne parlano, nessuno li vuole, nessuno sa realmente cosa farsene. La politica li ignora, la società civile alternativamente li osanna e li deride. Il singolo cittadino li ammira e li teme.

Decine di percorsi formativi post laurea di dubbia qualità, senza sistemi di verifica e misurazione della didattica, tempi lunghi e costi altissimi.

Una categoria in eterno bilico fra stelle e stalle: gli Psicologi.

Gli ultimi dati sulla nostra comunità professionale non lasciano spazio a molti arzigogolamenti:

ü     reddito medio procapite 17.000 euro lordi annui, la povertà è diventata realtà;

ü     scarsi supporti basati sull’evidenza dell’efficacia e dell’efficienza dei trattamenti;

ü     l’arrangiamento nella ricerca del lavoro è prassi quotidiana per tutti;

ü     lo sconfinamento delle altre professioni –dai medici ai coach- nel nostro settore lavorativo, mette in evidenza l’incapacità strutturale della categoria di darsi, rappresentare e presentare  un’identità professionale chiara e precisa;

ü     le università continuano a sfornare corsi e corsetti simil psy per tutti i gusti, producendo, di fatto, uno svuotamento ed un depauperamento costante della dignità professionale e nutrendo schiere d’illusi e serbatoi d’onnipotenza, ingrossando così file interminabili di precari a vita per vocazione;

ü     le cento, mille parrocchie professionali alimentano incomprensione e divisione fra professionisti: “Il mio modello è più bello. Gli altri sì…. ma vuoi mettere il nostro” dice qualcuno; “Il nostro paradigma è più bellissimissimo, quello degli altri a che serve”, fa eco il vicino.

Il futuro non presagisce veri margini di miglioramento.

La categoria non è ancora riuscita a compattarsi per fare pressioni sul mondo politico, cosicché i grandi progetti degli psicologi ambulatoriali, degli psicologi scolastici, degli psicologi di base ecc. sono da secoli chimere.

In questo marasma generale, scopriamo alcune “gaudenti” realtà.

1.     Una nota azienda avvia, a Milano, la sperimentazione dello “psicologo nel carrello”. Ovvero un servizio consulenziale mordi e fuggi offerto gratuitamente ai propri soci, mediante una nostra collega (almeno questo!!) e tramite uno “sportello” situato all’interno degli stessi supermercati, stile fast food fra un acquisto e l’altro.

2.     “Mamma Ebe” si dichiara impunemente psicologa con migliaia di clienti all’attivo, l’invidia e la rabbia per tutto il sudore ed i soldi sprecati finora mi soffocano.

3.     Il “Professor-Sorrentino-dell’Università-della-Sapienza-di-Roma” dichiara su un quotidiano nazionale a larghissima diffusione: “…quello che non si deve fare? «La psicanalisi. Chi è malato deve prendere farmaci, non chiacchiere che offrono solo una possibilità di maturazione, che alleviano i disagi esistenziali. Se si sta male davvero, non serve stendersi sul lettino a parlare per anni di padri e di nonni. L'analista fa quattro danni: trasforma il problema da acuto in cronico; impone al paziente la vocazione al dolore, impedendogli di prendere medicine che lo fanno stare meglio; gli distrugge la vita perché la sofferenza è tale che si rinuncia al lavoro, alla scuola, a una vita sociale e affettiva; lo prosciuga economicamente, perché decenni di sofà costano quanto un mutuo”.

I guru ed i seguaci delle prescrizioni facili, fra le altre cose, sovente dimenticano di dire: cosa produce effettivamente all’organismo umano l’uso dei farmaci; quali tipi di farmaci siano davvero efficaci; su quali studi reali, e non pilotati ad arte dalle stesse case farmaceutiche, si basano le riuscite degli psicofarmaci. Da ultimo, spesso omettono d’informarci se, di fatto, ci sia mai stato un solo caso di un paziente che è realmente guarito con l’uso dei farmaci. Spesso parte della comunità medica ignora, o fa finta d’ignorare, che recenti e seri studi scientifici –chiaramente occultati dalle case farmaceutiche- affermano inequivocabilmente che la guarigione, mediante l’uso degli psicofarmaci nelle depressioni, ha la stessa probabilità dell’estrazione di un numero qualsiasi del lotto.

4.     Per finire, un recentissimo articolo apparso sulla stampa, al centro la classica foto di Freud in posa tre/quarti, sguardo intenso e un po’ accigliato, pizzetto bianco, sigaro fumante in bella vista. Il giornalista afferma con tono trionfante che, in occasione degli europei di calcio, la nazionale olandese ha assunto uno psicologo specialista per sostenere i calciatori nel superare la “Sindrome del dischetto”. Lo ammetto, non ne ho mai sentito parlare, sono assalito dal panico dell’ignoranza professionale e dalla curiosità, così vado a guardare sul DSM e sull’ICD, niente neanche lì!! Quindi leggo con maggiore interesse l’illustrazione di questa nuova “Sindrome del dischetto” fatta dal giornalista. Sono pronto, mi aspetto i classici paroloni dei nostri manuali. Meno male, questa volta il linguaggio è semplice e chiaro (demonio di un giornalista), così riesco a capire velocemente. La “Sindrome del dischetto” non è conseguente all’ernia e nemmeno ad una mancata capacità genitoriale, o ad una depressione post partum, ma ad un imponente trauma derivante dal mancato gol da calcio di rigore!!!! Ho soddisfatto la mia sete di conoscenza, adesso mi sento più tranquillo, non si sa mai mi potrebbe capitare un cliente con la “Sindrome del dischetto”, almeno la riconoscerò velocemente e farò un figurone. Per il trattamento invierò al collega olandese, ormai bisogna globalizzarsi anche nella nostra professione.

 

A quando la nostra indignazione?

 

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