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Proposta di legge sulle “Disposizioni per l’accesso alla psicoterapia”: storica riforma o occasione mancata?

 

La proposta di legge sulle Disposizioni per l’accesso alla psicoterapia, nata con i nobili intenti di dare la possibilità alle persone meno abbienti di usufruire di un trattamento psicoterapico e di ridurre i costi della spesa pubblica per la salute mentale, rischia di essere neutralizzata dagli emendamenti che danno alla classe medica il potere di decidere chi, quando e come può usufruire del servizio di psicoterapia convenzionata.

Ripercorriamo l’iter dei lavori della Commissione Affari Sociali della Camera per comprendere come lo spirito riformistico di questa importante proposta di legge è stato snaturato da una minoranza di deputati che hanno condotto una battaglia corporativa, sul terreno neutrale delle riforme sociali.

La proposta di legge è stata scritta a partire dalla sintesi di tre testi base: quello di iniziativa dei deputati CANCRINI e colleghi (n. 439), quello proposto da DI VIRGILIO e colleghi (n. 1856) e quello di Conti e Meloni (n. 2486).

Tutte e tre le proposte perseguono l’intento di dare possibilità ai cittadini che non possono permettersi di sostenere gli alti oneri di un percorso di psicoterapia condotto privatamente, di usufruire di un trattamento psicoterapeutico il cui costo è parzialmente (o totalmente per quanto riguarda gli utenti esenti ticket) sovvenzionato dalla A-USL cui fa riferimento. In sostanza, mentre ad oggi chi si rivolge ad un servizio psichiatrico pubblico viene liquidato in pochi colloqui o viene curato esclusivamente con gli psicofarmaci, dopo l’approvazione di detta legge la A-USL potrà inviare a sue spese il paziente ad uno psicoterapeuta o a una struttura privata accreditati.

Scopo ultimo di tale provvedimento, a detta di tutti e tre i relatori che hanno presentato alla commissione i rispettivi testi base, è quello di garantire la tutela della salute mentale e la promozione del benessere psicologico, di prevenire ricoveri  ospedalieri e di ridurre quanto più possibile il ricorso a trattamenti farmacologici cronicizzanti. In sostanza le ricadute positive sulla società e sulla spesa pubblica sarebbero scontate in quanto si provvede a migliorare lo stato di salute di centinaia di migliaia di persone che in Italia soffrono di disturbi psicologici e psichiatrici e, allo stesso tempo, si riduce la spesa pubblica legata alla psicopatologia.

Una proposta di legge che dovrebbe colmare una lacuna storica, nel paese che per primo in Europa ha dichiarato illegali le istituzioni manicomiali, ma che, a trent’anni dall’approvazione della legge 180,  necessita ancora di provvedimenti legislativi volti a promuovere e regolamentare interventi a sostegno delle persone affette da disturbi psichici e delle rispettive famiglie.

Purtroppo il condizionale è d’obbligo, perchè com’è più volte successo nella storia del nostro Paese, quando c’è la possibilità di promulgare delle leggi che hanno il potenziale di determinare cambiamenti sostanziali, una minoranza di cittadini cerca di imporre la propria volontà a tutela degli interessi della categoria che rappresenta a scapito di altre categorie e a detrimento del benessere collettivo.

Nella fattispecie, la classe medica sta cercando di mettere le mani su questa proposta di legge richiedendo con insistenza (per voce di alcuni deputati membri della commissione Affari Sociali) l’approvazione di emendamenti che diano garanzia ai medici di mantenere il controllo sul grande business della salute pubblica. 

Infatti, fin dalla sua prima stesura la proposta di Di Virgilio e colleghi presentava nel art. 2 la specificazione che solo uno psichiatra o un neuropsichiatra o medico specializzato in psicologia clinica potesse decidere se l’utente in esame necessita effettivamente di una psicoterapia, di alcun trattamento o di altro tipo di intervento (terapia farmacologica, ricovero, ecc.). Così recita l’art. 2 della proposta n. 1856: “Sono ritenute valide le richieste presentate previa diagnosi formulata o confermata da uno specialista in psichiatria”. L’intento di Di Virgilio di dare maggiore potere decisionale alla psichiatria e alla classe medica è ancora più evidente nel passo della sua relazione introduttiva al testo base nel quale afferma che “La procedura di accreditamento deve rispondere a criteri di rigidità e di restrizione e deve essere valutata dalle aziende sanitarie nazionali, in collaborazione con le cattedre di psichiatria.”.

Non si rileva traccia, invece, della necessità di affidare la diagnosi esclusivamente a medici e psichiatri, nei testi delle proposte di Cancrini (n. 439) e di Conti e Meloni (n. 2486). L’art.  2 della proposta di Cancrini recita che le richieste di un trattamento psicoterapico possono essere “..,formulate direttamente dall’utente o, in suo nome, dai servizi sociali...” e non si fa minimamente riferimento alla necessità che un medico invii l’utente al servizio di psicoterapia o confermi la diagnosi degli utenti che ne hanno fatto richiesta. Al contrario, nell’art. 3, del testo in questione si fa esplicitamente riferimento all’art. 3 della legge 56/89 che stabilisce  che l’attività di diagnosi psicologica è propria della professione dello psicologo.

Conti e Meloni sono in linea con quanto espresso da Cancrini, stando a quanto espresso nel comma 3 dell’art. 2 della loro proposta, dove si dichiara che le richieste di intervento psicoterapeutico devono essere valutate e confermate da uno psicologo o da uno psichiatra.

Presto, però, il gruppo di Di Virgilio e colleghi partiranno all’offensiva, con una serie di interventi miranti a mettere in discussione la legittimità della diagnosi psicologica effettuata dagli psicologi.

L’attacco alla professionalità degli psicologi diventa massiccio nella seduta del 18 ottobre durante la quale verranno presentati una serie di emendamenti al testo redatto dal comitato ristretto, molti dei quali relativi all’art. 2. Quasi il 50% degli emendamenti proposti riguarderanno l’art. 2 e la questione della diagnosi a conferma di quanto l’interesse di una parte dei deputati si sia concentrata più sulla tutela dei privilegi dei medici che sulla riforma del SSN.

Nelle sedute del 14 novembre e del 18 dicembre lo stesso  Cancrini aderirà completamente alle tesi di Di Virgilio circa la diagnosi con l’approvazione dell’emendamento 2.5 di Zanotti e con la riformulazione del suo stesso emendamento 2.31 affermando che la diagnosi deve essere confermata da uno psichiatra o da un neuropsichiatra infantile.

Oggi il raggiungimento del proposito di ridurre la spesa pubblica riducendo il numero di ricoveri ospedalieri e l’acquisto dei costosi psicofarmaci, sembra essere molto lontano in considerazione del fatto che gli emendamenti approvati dallo stesso Cancrini consegnano il potere decisionale ai medici (di base e specializzati) i quali hanno tutto l’interesse a favorire il ricorso a ricoveri o a trattamenti farmacologici. I medici per professione hanno contatti con colleghi che operano in strutture ospedaliere, poliambulatori specialistici o rappresentanti di case farmaceutiche che costituiscono la fitta rete di interessi economici che necessariamente influenzano le scelte in fase di processo diagnostico.

La domanda sorge spontanea: che ne sarà di tutti quei pazienti che il medico di base sottoporrà ad una serie di esami medici (magari invasivi) alla ricerca di una patologia organica e per i quali concluderà che  non hanno nessun tipo di malattia in quanto non è stata riscontrato alcun disturbo fisiologico?

Una disposizione che prevede che l’invio ad un servizio di psicoterapia debba essere fatto necessariamente dal medico di base risulta essere un’inutile complicazione burocratica dell’accesso alla psicoterapia e risulta paradossale che essa venga proposta nell’ambito di una legge che voleva (il passato è d’obbligo) semplificare la fruibilità da parte dei cittadini dei servizi di psicoterapia.

In merito a quanto affermato alla tesi secondo la quale  gli psicologi non devono fare la diagnosi perchè non hanno competenza per rilevare patologie mediche, ci sentiamo di affermare che questa giustificazione è assolutamente pretestuosa. Anche uno psichiatra, in quanto specializzato solo in psichiatria  ha necessità al fine di escludere cause di carattere organico di un disturbo, di prescrivere una serie di esami specialistici che non può certo condurre lui stesso nel colloquio di valutazione. Allo stesso modo lo psicologo ha possibilità di lavorare in rete con il medico di base informandosi se sono stati effettuati  i necessari accertamenti  per escludere patologie organiche e nel dubbio chiedere ulteriori approfondimenti diagnostici.

La S.I.P.A.P. continuerà a sostenere l’abrogazione degli emendamenti lesivi della professionalità degli psicologi e chiede particolarmente ai deputati Cancrini e Conti, i quali nell’atto di stilare i rispettivi testi base avevano espressamente affermato che la diagnosi psicologica è prerogativa tanto degli psicologi che degli psichiatri,  di tornare su tali posizioni per impedire che la classe medica svolga un ruolo di egemonia nell’ambito della salute pubblica.

Garantire un approccio interdisciplinare alla salute mentale è l’unica via attraverso la quale è possibile dare una storica svolta alla gestione dei servizi socio-sanitari nel nostro Paese!

 

 

 

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